La disabilità psichica è conseguenza di un disturbo mentale, classificato dall’OMS nell’ambito dell’International Classification of Diseases (ICD), sebbene maggiormente utilizzato ed adottato secondo le linee guida del cosiddetto DSM (Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders) dell’American Psychiatric Association.

Secondo quest’ultima classificazione americana i disturbi mentali si dividono in:

  • organici;
  • schizofrenia e disturbi deliranti;
  • disturbi dell’umore;
  • disturbi d’ansia;
  • disturbi somatoformi, fittizi e dissociativi;
  • disturbi sessuali e dell’identità di genere;
  • disturbi alimentari;
  • disturbi del sonno;
  • disturbi di personalità….

Esiste anche una sezione separata che tratta dei disturbi dell’infanzia, fanciullezza e dell’adolescenza, costituita solo per comodità, perché nella maggior parte dei casi le patologie sono rilevate nell’età evolutiva. Questi disturbi sono:

  • ritardi mentali;
  • disturbi dell’apprendimento;
  • disturbi delle capacità motorie;
  • disturbi della comunicazione;
  • disturbi da deficit di attenzione;
  • disturbi della nutrizione e dell’alimentazione dell’infanzia e della prima fanciullezza;
  • disturbi da tic;
  • disturbi dell’evacuazione;
  • disturbi pervasivi dello sviluppo (autismo).

Il soggetto disabilità psichica appare incapace, in parte o totalmente, di svolgere il ruolo sociale che gli viene richiesto dalla famiglia e in generale dal contesto nel quale vive.
Si parla di disabilità primaria per definire il danno intrinseco indotto dalla malattia psichiatrica, che determina i problemi ed i conflitti con la famiglia e l’ambiente sociale.

La disabilità secondaria è costituita dalle reazioni personali avverse. Gli effetti di una grave crisi psichica possono, per esempio, essere la perdita totale di autostima oppure, viceversa, la negazione del disturbo stesso.

La disabilità terziaria è costituita dagli handicap sociali conseguenti alla malattia: povertà, solitudine, mancanza di lavoro e di una abitazione sono fattori che amplificano la malattia di base portando il paziente ad una condizione di insicurezza e di progressivo isolamento.

Dal punto di vista della società, d’altronde, la persona con disabilità psichica viene paradossalmente presa in considerazione proprio in funzione della sua patologia e quindi reputata oggetto di terapia ed assistenza. Sembra cioè esistere in quanto “malato” e non come persona con proprie capacità e potenzialità residue.

Questo rischia di minarne non solo l’identità e la dignità personale: una visione puramente medicale pone le basi per limitare le potenzialità nelle sfere socio-educative della persona caratterizzata da disabilità psichica. Fortunatamente la rivoluzione attuata da Basaglia nel 1978 ha modificato drasticamente l’approccio ed i protocolli per il recupero delle persone caratterizzate da disabilità psichica.

Riabilitazione e disabilità psichica

Riabilitazione in senso letterale significa riacquisizione di una capacità perduta, in questo caso in seguito alla malattia psichiatrica. Scopo finale dell’intervento riabilitativo è il raggiungimento del massimo grado di autonomia possibile.

Negli ultimi decenni si è andato affermando il concetto di riabilitazione anche in campo psichiatrico come conseguenza dell’evolversi dell’atteggiamento sociale verso questa categoria di malati.

In Italia fino al 1978 è stata in vigore la legge n.36 promulgata nel lontano 1904: “ Disposizioni e Regolamentazioni sui manicomi e sugli alienati”. All’Art. 1 viene detto che “debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano o non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi”.

La gestione di tali malati, quindi, veniva affidata esclusivamente alla Psichiatria al fine di salvaguardare la società dal potenziale rischio di pericolosità. Il ricovero nella struttura manicomiale diventava definitivo se, entro 30 giorni, non veniva costatata l’assenza della supposta malattia mentale, il malato era definitivamente associato al manicomio per decisione del Tribunale e perdeva i diritti civili.

Un’eventuale dimissione avveniva solo sotto la responsabilità penale di un familiare o del Direttore dell’ospedale psichiatrico.

In pratica non usciva mai nessuno ed il malato di mente diventava un recluso a vita.
Intorno agli anni Settanta si fa strada progressivamente la consapevolezza della inumanità di tale gestione del malato mentale, con la conseguente necessità di trovare forme nuove di assistenza.

Nel 1978 con la Legge n. 180 (Legge Basaglia) si dispone la chiusura dei manicomi, si introduce il Trattamento Sanitario Obbligatorio e si istituiscono i Servizi di Igiene Mentale pubblici.

Con questa legge e la successiva integrazione nella Legge 833/1978, che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale, la malattia mentale viene equiparata alle altre patologie e il malato psichiatrico viene posto al centro dell’interesse.

Viene inoltre introdotto il concetto di collaborazione tra parte sanitaria e parte sociale.

Gli obiettivi della Riforma non sono stati però pienamente raggiunti, soprattutto per motivi economici, per cui molti pazienti, non più contenuti e vigilati, ma non adeguatamente seguiti, hanno creato considerevoli problemi di ordine gestionale alle famiglie e alla collettività.

La Riabilitazione in questi casi è nata come risposta alla domanda di miglioramento dell’assistenza a tali persone.

Contemporaneamente si è presa coscienza dei diritti anche dei pazienti psichiatrici più gravi ancora ospedalizzati, cosa che ha indotto ad introdurre il concetto di “ Fare Riabilitazione” anche tra questi soggetti.

Inoltre l’evoluzione delle conoscenze mediche, farmacologiche e psichiatriche ha portato al miglioramento della prognosi di molte psicosi con conseguente prospettiva di recupero di pazienti.

Oggi la Riabilitazione dei soggetti con disabilità psichica si articola attraverso una serie di strutture che dovrebbero avere come scopo il cambiare il modo di fare assistenza.
Tali strutture (Centri Diurni Riabilitativi, Case Famiglia, Comunità Terapeutiche, Comunità Protette, Gruppi Appartamento) sono improntate al recupero della dimensione del tempo, dello spazio e delle relazioni.

L’abitare in una struttura di piccole dimensioni da calore e sicurezza e crea delle abitudini che permettono di scoprire il senso del “qui ed ora”; lo svolgersi della vita quotidiana fa sì che si condividano luoghi e tempi e si stabiliscano relazioni con gli altri.

L’attività terapeutica è basata sul “fare”, condividendo le esperienze di ogni giorno, aiutando così la persona a sviluppare il senso di appartenenza.
Importante fattore terapeutico è rappresentato dalla presenza costante degli operatori, presenza non invadente e non gerarchizzata.

Indirizzare il paziente psichiatrico verso un certo tipo di struttura dipende dal livello di autonomia e di capacità di relazionarsi con gli altri già acquisito o che si pensa acquisibile.

Il soggetto con disturbo mentale ha, a diversi livelli di gravità, un’incapacità a relazionarsi con se stesso e con gli altri.
Questa incapacità si manifesta con una alterazione del pensiero e della comunicazione con il mondo esterno. Tuttavia, anche nei casi più gravi, il malato conserva dentro di sé delle parti sane, e dal conflitto estremo tra parte sana e parte malata nasce l’angoscia che connota il vissuto della follia.

La Riabilitazione Psichiatrica deve avere quindi come scopo il ricostituire l’unità psichica e relazionale, ricostruendo le strutture del Sè intrapsichico (Sé corporeo, Sé espressivo, Sé verbale).
Non basta offrire al paziente la remissione farmacologica del sintomo, ma è necessario dargli un sostegno in quanto persona che si relaziona con gli altri.

Finché l’unico rimedio alla malattia psichica è stato il ricovero, il problema dell’autonomia del malato non è mai stato preso in considerazione.

L’Istituzione, per quanto “cattiva madre” era pur sempre “madre” e si occupava dei suoi bisogni primari.

La Riabilitazione Psichiatrica si basa sulla costruzione o ricostruzione di una relazione (con il Sé, l’Altro da Sé) impedita dalla malattia; per fare questo c’è necessità di uno spazio terapeutico e riabilitativo in cui il paziente può incontrare le sue parti malate e differenziarsi da esse.

Il miglioramento e la guarigione sono fasi di “separazione dalla malattia” che come ogni separazione si basa sulla rielaborazione del lutto, cioè il sentimento doloroso di abbandonare uno stato di sicurezza per entrare in uno spazio sconosciuto.

La Riabilitazione deve avere come scopo la ricostruzione delle strutture del Sé intrapsichico (Sé corporeo, Sé espressivo, Sé verbale ) avvalendosi dell’utilizzo di svariate metodiche, che agiscono diversamente in relazione alle dette strutture.

Da questi presupposti, tra le tante possibili alternative la mediazione animale e la riabilitazione equestre in particolare, sono interventi particolarmente funzionali allo sviluppo di abilità trasversali ed alla ristrutturazione del Sè in un clima informale ed altamente motivante, facilitato dagli aspetti della motivazione e della polarizzazione affettivo-relazionale che caratterizza il cavallo.

Il seguente articolo completa la trattazione divulgativa concentrando l’attenzione sui punti di forza della riabilitazione equestre nel campo della disabilità psichica e malattia mentale in particolare.